Una passeggiata domenicale

Una colorata e vociante carovana di ragazze e ragazzi si snoda sulla strada semideserta che porta alla Grotta di Lourdes, appena fuori Casale Monferrato: è un pomeriggio insperatamente soleggiato e sorprendentemente caldo per essere febbraio. 

Le mie compagne sono infastidite dalle persone, io no: sono curiosa, adoro impicciarmi e così cerco di cogliere brandelli di conversazione qua e là, come volando di fiore in fiore. Mi riesce bene, me lo dicono tutti. 

C’è un bimbo che procede spedito davanti a tutti, si sente il capo spedizione; poi un ragazzino che scrolla gli arbusti secchi con l’aiuto di un lungo ramo, forse è a caccia di qualche animale nascosto. A pochi passi seguono due ragazze che si danno l’intesa e continuano a parlare fitto fitto di quel Lorenzo che è proprio un gran figo! 

Altri due ragazzi camminano a distanza, come a non volersi mostrare parte del gruppo. È un gruppo eterogeneo, colorato e vociante. Sì, questo l’ho già detto. 

Li guardo ed istintivamente mi allontano un po’ come se la visione d’insieme potesse darmi maggiore chiarezza e farmi capire chi o che cosa ho di fronte. Cerco di mettere insieme le informazioni visive e uditive: un gruppo di ragazze e ragazzi che fa una passeggiata, due persone adulte che accompagnano… potrebbe essere una famiglia, ma no, non lo è. Chissà chi sono. 

Un refolo di vento mi porta una frase che mi colpisce: il timbro è scuro, baritonale, la pronuncia ruvida ma calda: “Sai che quando ero in Marocco, prima di venire in Italia, in comunità, andavo in giro, da solo. Mia nonna mi diceva sempre di non andare in un posto perché c’erano cani randagi, era pericoloso…”

Mi avvicino un po’, aguzzo la vista: quello che parla è un ragazzone massiccio, dalla pelle bruna e i capelli ricci e neri; l’andatura è greve, ma sembra danzare per cercare di stare accanto a una donna che lo ascolta, mantenendo l’occhio sul gruppo. Lui prosegue a raccontare, accompagnando l’eloquio scarno e stentato con gesti ed intonazioni esplicativi. 

“Si, tutti dicevano di non andare lì, troppo pericoloso. Io, però, un giorno ci sono andato. Volevo un cane, ma non un cane grande, uno piccolo…” – fa un gesto avvicinando le mani come se tenesse qualcosa di piccolo e delicato, tentenna. 

“Un cucciolo…” – chiosa la donna, che conosce le difficoltà di espressione del ragazzo e prova a mediare fra la necessità di lasciargli il tempo di trovare la parola giusta e l’impazienza di sentire il seguito. Anch’io sono impaziente di sentire il resto. 

“Sì, sì, un cucciolo!” ripete soddisfatto. 

“Sono andato lì e…” – si ferma, la donna gli rivolge lo sguardo, attenta. Lui continua, spalancando gli occhi e mimando la sorpresa: “C’erano delle persone, ho chiesto dov’erano i cani, loro non capivano. Poi ho visto, erano persone pericolose. Erano spacciatori! Ho avuto paura e sono scappato. Velocissimo!” – conclude concitato, accelerando il passo, quasi dovesse ancora scappare da qualche pericolo. 

Io lo capisco quel ragazzo, siamo simili. Però è strano, lui è grande e grosso, eppure ho visto che si è spaventato quando sono passati davanti ad una casa con un cane che abbaiava dietro il muro di cinta! Mah? 

Volo via con i miei pensieri, mi dico che le persone a volte sono proprio strane: più le osservo e guardo il loro modo di fare e di essere, più capisco che è difficile capirci qualcosa se non ci si impegna a conoscerle bene. E poi sono tutte diverse, ognuna con la sua storia. 

Il gruppo oramai è lontano, le voci sfumano, le figure si perdono all’orizzonte dietro un lieve dosso. 

Torno ronzando dalle mie compagne alla ricerca di qualche fiore, timido anticipo di primavera. Torno a bottinare. D’altra parte, sono un’ape, no? 

Carolina 

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