Ho venticinque anni: tempo di bilanci?

Prendiamo posto nell’ufficio educatori, i raggi decisi di un sole molto caldo per essere l’inizio della primavera, quasi mi feriscono gli occhi. L’educatrice in turno questa mattina mi sorride accostando le pesanti tende verde prato, un verde noto e rassicurante che rimbalza come una nota familiare nella scatola della memoria.

Era il 16 luglio del 2010, avevo dodici anni quando la mia ex assistente sociale, Laura, l’educatrice di Biella e la mia neuropsichiatra Patrizia, vennero a casa dell’ex fidanzato di mia madre a Sostegno. Mi ricordo bene quel giorno, io ero a disagio, non immaginavo che cosa stesse per capitare: ci avrebbero portati in comunità a Casale Monferrato, un posto che non avevo mai sentito nominare. Mia mamma piangeva, mi sembrava tutto molto strano, non capivo, non sapevo ma mi fidavo. Non capivo che cosa stesse accadendo, parole e visi, mamma che piangeva e poi sono partito, siamo partiti. Era tutto davvero molto strano, non mi sembrava vero ma non ero triste.

Anche questa intervista mi sembra un po’ strana, ma mi piace molto, una bella idea: io che intervisto educatrici e educatori per sapere come è stato conoscermi e fare questo lungo pezzo di strada insieme.

Quando sono arrivato in Harambée, ero un po’ disorientato, l’ambiente era nuovo, c’erano tanti educatori, Simone, Franco, Barbara, Milena, la nonna Rita (che è la cuoca della comunità). Franco ci ha fatto fare il giro della casa, ci ha spiegato l’ambiente, le camere, la cucina, il salone, gli uffici. Era tutto molto particolare. Nuovo e strano!

Io ero il più piccolo di età tra i ragazzi che c’erano, questo molto presto mi ha fatto pensare che avrei potuto sentirmi “sottomesso”. Questo, Franco, è il mio primo ricordo. Ti chiedo, quale è il tuo, che impressione hai avuto quando mi hai visto la prima volta?

Franco si accomoda meglio sulla sedia, prende fiato e con un largo sorriso inizia a parlare, vagando un po’ con lo sguardo come se volesse afferrare meglio ricordi lontani rimasti attaccati alle pareti come vecchie foto, agli arredi come il profumo di torta appena sfornata, ai corridoi come le voci dei ragazzi che abitano adesso in comunità. Ricordi lontani ma profondamente impressi nella memoria del cuore.

“La mia prima impressione è stata quella di due ragazzini sperduti. Mi ricordo che tu e tuo fratello eravate in pigiama perché vi avevano prelevato al mattino e non era stato semplice portarvi via. Venivate da un periodo molto difficile, come difficile era stata la vostra vita anche prima della separazione di mamma e papà. Mi sembravi un ragazzino bisognoso di rassicurazioni, che cercavi da tuo fratello. Vi facevate forza l’uno con l’altro, tu cercavi in lui la tua famiglia e lui provava a sentirsi più forte rassicurando te.”

Fa una breve pausa come se volesse essere certo che io lo stia seguendo in quel volo nel passato, poi continua:

“Mi siete sembrati subito due ragazzini educati, tu poi parlavi pochissimo e ti esprimevi attraverso Lorenzo. All’inizio non è stato facile, ma presto le cose sono andate meglio. Di certo vi ha fatto bene venire qui, soprattutto a te, avere una routine quotidiana ben scandita, ordinata, rassicurante. Sì, averti qui è stata una scommessa, una sfida e un impegno quotidiani. E tu ti ricordi la lavagnetta? Giravi sempre con quella, finché non abbiamo deciso che era ora di metterla via…”

Sì che mi ricordo, ne ho avute diverse, le usavo anche quand’ero a casa. Era un gioco ma anche uno sfogo: quando ero carico e non riuscivo a esprimermi, disegnavo, facevo le esplosioni. La lavagnetta mi serviva per disegnare quello che avevo in testa, per tirarlo fuori, se no c’era troppa roba. Anche adesso ho spesso tante cose nella testa e il bisogno di alleggerire i pensieri diventa urgente. Ci sono tante persone intorno a me, non uso più la lavagnetta.

Ma continuiamo. Come avete deciso di prendermi?

“Ti dirò che ne abbiamo parlato molto in equipe, come facciamo sempre quando ci confrontiamo per valutare l’inserimento di un ragazzo o una ragazza nuova; c’erano tante perplessità, molti temevano che non avessimo gli strumenti e le competenze adeguate ad accoglierti, ma io ero abbastanza tranquillo, fiducioso. Infatti, come vedi, hai fatto un bel percorso, sempre in crescendo, sei diventato adulto e capace di vivere quasi in autonomia. Ci avresti mai creduto? Te lo immaginavi il tuo futuro?

No, di certo quando sono arrivato non avevo immaginato che fosse quello il mio futuro. Io speravo, all’inizio, che la comunità fosse un passaggio momentaneo, speravo di tornare a casa, almeno da mia mamma. Invece sono rimasto in CER per sette anni, poi sono passato in Over 18, dove vivo da cinque anni.

Intanto la nonna Rita si affaccia alla porta dell’ufficio e chiede se qualcuno vuole un caffè, poi si rivolge a me chiamandomi Tumasìn. Ero piccolo quando sono arrivato, ora sono cresciuto, ma per lei sono sempre Tumasìn.

Volevo chiederti una cosa, nonna: ma tu, quando sono arrivato qui, te lo saresti immaginato che un giorno avremmo preso il caffè insieme? Nonna Rita scoppia a ridere, poi si fa seria e – giurerei – un velo di commozione le vela lo sguardo mentre risponde:

“No, non me lo immaginavo. Non pensavo proprio che saresti rimasto qui per tanto tempo. E non pensavo proprio che saresti cresciuto così. Eri già un ragazzino educato e gentile, ma non immaginavo che saresti diventato così, adulto e capace di fare tante cose” conclude un po’ in fretta e va via. Sì, secondo me è commossa.

Ed io pure, provo un senso di gratitudine per quelle parole. Mi piace la sensazione di sapere che c’è qualcuno che il martedì mattina aspetta me per prendere il caffè.

Rif. Thomas Bastianello

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