Ma la solidarietà è contagiosa?

Un pomeriggio come tanti in Harambée, in un turbine di suoni, luci e colori.

Chi gioca a ping pong sul tavolo del salone, altri a “Uno”, qualcuno chiacchiera sul divano, in due si sfidano a scacchi, mentre le educatrici rincorrono un recalcitrante che non si rassegna ad andare a far la doccia. Intanto l’eco metallica della TV rimanda le ultime notizie dell’inviato da Kiev: da alcuni giorni migliaia di persone vivono sotto attacco di carri armati e bombardamenti aerei. Questo servizio richiama l’attenzione di una ragazza che ci chiede di spiegarle perchè è scoppiata la guerra, perchè un popolo si sente autorizzato ad attaccarne un altro. E soprattutto, perchè non abbiamo ancora imparato che la guerra è brutta per tutti, anche per i soldati che attaccano o difendono.

Il vociare si spegne inaspettatamente, i volti delle ragazze e dei ragazzi nel salone si rivolgono allo schermo, le espressioni si fanno serie e sospese quando sul video passano le immagini di mamme e bambini che piangono in una lingua che non comprendiamo, o forse sì. L’ucraino non lo conosce nessuno qui in Harambée, ma la sofferenza sì, quella è una lingua nota. Universale.

Qualcuno azzarda un commento forte, contro i russi “cattivi” che aggrediscono: “Ma non possiamo mandare i nostri carri armati, gli aerei e li facciamo fuori tutti?” Non funziona così, la violenza porta ad altra violenza in una escalation che poi è sempre più difficile fermare.

“Allora che si può fare?” chiedono quasi in coro.

“Tutti quei bambini… poverini…” lo sguardo del ragazzo che prima voleva i carri armati, si addolcisce parlando dei bambini. Qualcosa possiamo fare, certo. Possiamo aiutarli da qui, mandando loro qualcosa, farmaci, disinfettanti, bende, cibo per i più piccoli.

“Io ed Eli domani andiamo ad aquistare qualcosa in farmacia, certo non sarà tanto, ma è meglio di niente” concludo.

“Allora pure io voglio mettere dei soldi” dice di slancio la ragazza, riciclando le idee bellicose in risposte solidali.

“E se tutti mettono qualcosa…?” chiosa speranzoso.

Mezz’ora dopo, armato di foglio e penna, gira fra le ragazze ed i ragazzi a chiedere quanto sono disposti a mettere per acquistare farmaci e alimenti per i bambini ucraini. “Noi abbiamo raccolto 85 euro” ci comunica orgogliosamente. Tutti hanno risposto con grande generosità, inusitata per qualcuno.

La mia collega ed io siamo commosse, non ci aspettavamo una tale compatta adesione e partecipazione, non riusciamo a tenercela per noi, così la condividiamo in una “chat” con gli altri colleghi.

Così anche educatrici ed educatori raccolgono una bella cifra da devolvere per rendere l’acquisto in farmacia più consistente. Quando lo diciamo ai ragazzi, percepiamo un misto di soddisfazione e compiacimento, tutti insieme siamo più forti (ricordiamoci il significato della parola Harambée!), uniti possiamo fare la differenza per qualcuno. Con questa certezza ci adoperiamo per contattare delle farmacie.

Sapendo che questa raccolta è partita dai ragazzi, tutti si adoperano in qualche modo per rendere più ricca la fornitura, tanto che il dopo cena di giovedì è dedicato a smistare e imballare farmaci e prodotti per primo soccorso.

Ventiquattro mani si passano una scatola di antipiretico, una confezione di garze sterili, cotone idrofilo, antiinfiammatori e disinfettanti vari. C’è gioia e confusione fra i ragazzi, desiderio di sentirsi utili, parte di qualcosa di più grande, ma soprattutto grande soddisfazione nel vedere che da una loro idea si è scatenata questa gara di solidarietà che ha commosso e coinvolto tanti adulti.

Nello scattare qualche foto per immortalare il momento dello smistamento ed imballaggio, una ragazza mi ha chiesto: “Carolina, ma la solidarietà è contagiosa?” In tempi di pandemia, in cui essere “positivo” non è bello e dire che una persona è “contagiosa” significa stare alla larga, mi viene da sorridere e rispondere sì, con un filo di voce.

Rif. Carolina Schiavone

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